Matteo Liut (Avvenire) - Ma a noi, che viviamo “da questa parte” del mondo e siamo abituati a pensarci come il centro, cosa dice il viaggio di papa Francesco “dall’altra parte” del pianeta? Che messaggio hanno per noi le parole e i gesti offerti dal Successore di Pietro a popoli e culture lontanissime dalla nostra quotidianità, dai nostri ritmi, dalla nostra sensibilità? Il primo, e più evidente, messaggio che questa lunga visita ci offre è proprio l’invito a non considerarci il centro del mondo. I poco meno di 200 conflitti nelle diverse aree del globo sono già l’espressione più aspra e incisiva di un cambiamento degli equilibri tra potenze, nel senso di una sempre maggiore multilateralità dei rapporti internazionali.
Si è già detto molte volte e in molte analisi che questo scenario è una vera e propria sfida per l’Europa e l’Occidente in generale: in un mondo in cui il baricentro si parcellizza, la nostra cultura, la nostra storia, il nostro patrimonio sociale e politico cosa ha da dire e offrire? In questo senso papa Francesco è un vero e proprio profeta, un testimone, un’icona vivente che fa da sentinella al contributo che il vecchio “centro del mondo” può e deve a tutti costi continuare a offrire.
A due condizioni però: che esso sappia riconoscere e valorizzare tutto quel bagaglio di principi universali che il Vangelo ha piantato nella sua identità più profonda e che ammetta il fatto che il “suo” modo di vivere quei principi non è l’unico possibile. Quindi andando là, ai confini, il primo messaggio che Bergoglio ci riporta a casa è questo: basta pensarci come il centro, perché ogni periferia è centro, alla luce del messaggio del Risorto, del Figlio di quel Dio che si presenta a noi come padre dell’intera umanità, e ogni centro è periferia. [CONTINUA]
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