È vero che a norma dell’intesa tra la Santa Sede e Pechino siglata nel 2018 spetta alle autorità cinesi la prima scelta di ogni nuovo vescovo, che il papa può approvare o no ma di fatto ha fin qui sempre sottoscritto.
Ma che quella designazione fosse un ennesimo affronto per la Chiesa di Roma era più che evidente. Non solo perché compiuta nell’interregno tra un papa e l’altro, come se entrambi non contassero nulla, ma ancor più per il fatto che a Shanghai – dove il capo della diocesi, il vescovo Joseph Shen Bin, che è anche presidente della pseudo conferenza episcopale cinese mai riconosciuta da Roma, è stato insediato nel 2023 con decisione unilaterale del regime solo successivamente comunicata a papa Francesco – di vescovi ausiliari già ve sarebbero due, ma entrambi impediti : Joseph Xing Wenzi, 62 anni, ordinato nel 2005 ma poi caduto in disgrazia e indotto a ritirarsi a vita privata nel 2011, e soprattutto Thaddeus Ma Daqin, 57 anni, che il 7 luglio 2012, proprio durante la sua ordinazione episcopale, revocò la sua adesione alla governativa Associazione patriottica dei cattolici cinesi, con l’effetto immediato di essere da allora ininterrottamente tenuto agli arresti nel seminario di Sheshan.
Ebbene, dopo quasi sei mesi da quella sua “elezione”, il 15 ottobre Wu Jianlin è stato ordinato vescovo, in capo a una campagna di promozione di questa sua nomina condotta proprio dal titolare della diocesi Shen Bin, tra l’altro con l’argomento che Wu “doveva comunque essere ordinato, essendo rimasto l’unico non vescovo dei cattolici facenti parte della Conferenza consultiva politica del popolo cinese”.
Il tutto con la passiva sottomissione di Roma, che si è limitata a una laconica conferma dell’ordinazione di Wu, dandola come “approvata” dal papa l’11 agosto. [CONTINUA]

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