12 luglio 2025

Solitudine e disagio del prete: un problema strutturale?


Giovanni Cucci (Civiltà Cattolica) - La solitudine non è di per sé un male. Essa infatti mostra la verità dell’essere umano come creatura bisognosa di Assoluto; la sofferenza che questo comporta, se accolta come la verità di sé stessi e non come una maledizione, può consentire di vivere relazioni solide e profonde: anzitutto la relazione con il Signore, perché si è giunti a riconoscere che senza di Lui la vita diventa insopportabile e senza senso.

C’è infatti una dimensione di solitudine in ogni stato di vita, come ben sanno le persone sposate, un vuoto ontologico, che niente e nessuno può colmare; questa impossibilità, qualora non venga accettata, può portare a investimenti illusori sull’altro, a pretese irrealizzabili e al fallimento della relazione. È significativo che la crisi del celibato e la crisi del matrimonio siano comparse insieme.

La solitudine mette a disagio quando trova la persona distante dal suo io più profondo, priva di relazioni significative, perdendosi nelle cose da fare, nel pettegolezzo del momento, nel vizio…, sperando che questo possa riempire il vuoto che tormenta. Tutto ciò vale anche per chi, come il presbitero, è chiamato a una vita di celibato. La solitudine presenta aspetti molteplici, che possono renderla desiderata o temuta. Da qui l’importanza di capire come e quando essa, da condizione di verità, possa diventare tossica.

Alcuni cambiamenti epocali

Vi sono anzitutto motivi strutturali: la rarefazione dei punti di riferimento, dei possibili luoghi e tempi di ristoro, l’assottigliamento e invecchiamento delle comunità.

Papa Francesco, in occasione di un discorso alla Curia, ha detto che siamo in una situazione di post-cristianità, di cui forse non si è ancora sufficientemente preso consapevolezza: «Non siamo nella cristianità, non più! […]. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata» [CONTINUA].

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