Mattia Spanò (blog Sabino Paciolla) - Il cardinal Zuppi ospite al Giffoni Film Festival si è lasciato andare a considerazione sparse sull’amore queer, così come gliel’ha insegnato Michela Murgia. Succo del discorso è che non serve né il legame di sangue né quello giuridico, ma basta amare: love is love. Credere in Dio non serve, ma aiuta. Presumo che Zuppi non abbia detto soltanto questo ma diciamo la verità: le sintesi giornalistiche, nel caso di questi clerici vagantes, sono sin troppo accurate. Insomma: stesso copione, stessi attori, stesso film, stessa zuppa da un po’ di anni in qua.
Le critiche a queste parole di Zuppi sono state diverse e puntuali; tuttavia, esse riguardano un ristrettissimo circolo di “nostalgici” di una fede cattolica appresa e intrapresa, che per il momento le masse liberate dal giogo del sacro – “il mio peso è dolce, il mio carico leggero” – snobbano con un eccesso di entusiasmo che dovrebbe insospettire. C’è troppo odio verso Dio e verso Cristo per non pensare che non sia innervato da una nostalgia bruciante.
Dopo aver assistito alla serata inaugurale delle Olimpiadi di Parigi, un inno Lgbtq, c’è una domanda che si dovrebbe rivolgere ai nostri pastori: vista l’ubriacatura generale per questi temi, davvero si sente il bisogno del contributo cattolico, o meglio sedicente tale? Davvero la Chiesa sente l’urgenza di unirsi al coro vasto e unanime a supporto di questo tipo di istanze? Davvero queste istanze reclamano la Chiesa Cattolica, non limitandosi a pretendere atti di vassallaggio come quello di Zuppi?
Davvero Zuppi, che scandisce il nome e il cognome di Michela Murgia – il mio nome è Bond, James Bond – erige a insegnamento il parere banale, sentimentale e sconclusionato di una scrittrice, strizzando l’occhio ad una subcultura il cui contributo si riduce all’iconoclastia di tutto ciò che è, la lingua, la storia, la morale, la natura come dato e dono?
In definitiva: quale sarebbe il contributo del cattolicesimo alla dottrina Lgbtq?
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