Andrea Gagliarducci (Korazym) - Che il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato avrebbe comportato conseguenze e difficoltà per la Santa Sede era comprensibile fin dal momento in cui il Tribunale vaticano ha emesso la sentenza. La Corte stessa ha presentato scelte incoerenti e una linea di giudizio che sembrava variare a seconda delle situazioni. Solo la pubblicazione del testo della sentenza, entro quest’anno, potrà spiegare le ragioni di alcune decisioni.
È indicativo che, al termine di quel processo, tutti abbiano già dichiarato di voler ricorrere in appello, anche il Promotore di Giustizia vaticano, che si è anche detto soddisfatto di aver visto accettata, almeno in parte, la sua accusa. Allo stesso tempo, la Segreteria di Stato non farà appello, essendosi costituita parte civile, anche se non ha visto riconosciute tutte le sue richieste di risarcimento.
La questione però va oltre la sentenza e riguarda come si è svolto il processo tra le mura vaticane. Quattro rescritti di Papa Francesco, indagini e perquisizioni di cui è stata messa in discussione la correttezza procedurale, e interrogatori dai toni duri talvolta definiti manipolativi, hanno caratterizzato il processo, fin dalla fase embrionale che ha portato al processo. Tutte queste denunce, gli avvocati hanno sollevato più volte tutte queste denunce, chiedendo più volte l’annullamento del processo, perché il procedimento lo aveva reso invalido.
La scorsa settimana, un parere del canonista Paolo Cavana pubblicato sulla rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale [QUI] ha ribadito molte delle criticità. Allo stesso tempo, la notizia di un’inchiesta in Italia sulle intercettazioni illegali ha influenzato anche il processo vaticano, perché tra le persone intercettate illegalmente figuravano anche alcuni imputati del cosiddetto “processo del secolo”.
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