Andrea Gagliarducci (Korazym) - Se dovessi definire un momento preciso in cui la professione del vaticanista è cambiata, non avrei dubbi nel dire che lo spartiacque è stata la rinuncia di Benedetto XVI, undici anni fa. Perché già la rinuncia in sé era un atto dirompente, fuori dagli schemi, improvviso e per questo difficile da porre nelle categorie classiche. E perché, dopo la rinuncia, c’è stata un’ansia di cambiamento, quasi una crisi di rigetto, in cui si è deciso che tutto andava cambiato, che la Chiesa dovesse cambiare narrativa, dovesse parlare con il mondo ma da un punto di vista pari o addirittura di sudditanza. In cui, in fondo, il lavoro con i media diventava centrale, perché era lo stesso Papa che la rendeva centrale, con i suoi gesti, con le sue improvvisazioni, con le sue catchphrases destinate proprio a catturare l’attenzione del pubblico.
Eppure, quel gesto dirompente di Benedetto XVI è stato, ed è soprattutto, il certificare una crisi. Non la crisi di una istituzione, quella del pontificato, come in molti dicono. Lo dicono, probabilmente, per non guardare a crisi ben più profonde, usando il pontificato come capro espiatorio. La crisi vera riguardava proprio la comunicazione della e sulla Santa Sede, la difficoltà a riconoscere nel pensiero della Chiesa qualcosa di valido e vero da raccontare. [CONTINUA]
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