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09 ottobre 2025

Israele e i tre ultimi papi. Il racconto del rabbino capo di Roma


Sandro Magister (Diakonos) - Nel dialogo tra il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni (nella foto) e il giornalista ebreo “dissidente” Gad Lerner – raccolto in un libro uscito ora in Italia dal titolo “Ebrei in guerra” – un intero capitolo è dedicato ai rapporti tra la Chiesa di Roma e Israele. Con notazioni di grande interesse, tanto più dopo il sì di Hamas alla liberazione di tutti gli ostaggi e dopo quanto detto dal segretario di Stato vaticano cardinale Pietro Parolin a “L’Osservatore Romano”, nel secondo anniversario della strage del 7 ottobre.

Di Segni mette subito in chiaro che “la condizione ebraica è complessa, è un miscuglio di religione e nazione”. E sono proprio le risposte della Chiesa cattolica a questa complessità, con le sue oscillazioni e contraddizioni, a segnare gli alti e bassi del rapporto tra le due fedi, in questi ultimi decenni.

A giudizio del rabbino capo di Roma il momento più alto di questo dialogo è stato toccato con Benedetto XVI, il quale “ha scritto cose molto importanti e positive sull’ebraismo”.

Benedetto XVI ha saputo andare al cuore della “incomprensione” tra le due fedi. “Mentre per i cristiani risulta incomprensibile che gli ebrei non credano in Cristo, per gli ebrei risulta incomprensibile che i cristiani ci credano. Questa incomprensione reciproca può portare ad aggressività o a incomunicabilità, o la si può evitare rinviandola alla fine dei tempi, pensando invece a cosa fare insieme oggi”. Ed è questo “l’aspetto pratico del dialogo che nella sostanza ha prevalso con Benedetto XVI, malgrado le sue durezze di principio”.

Effettivamente, con Joseph Ratzinger papa avvenne proprio così. Nel primo dei suoi tre volumi su “Gesù di Nazaret”, nel commentare il Discorso della montagna, attribuì a quanto scritto in proposito dal rabbino statunitense Jacob Neusner, che si era immaginato contemporaneo di Gesù e suo uditore, il merito di avergli “aperto gli occhi sulla grandezza della parola di Gesù e la scelta di fronte alla quale ci pone il Vangelo”, per “la franchezza e il rispetto” con cui quell’ebreo credente diceva di non poter seguire Gesù.

E ancora, per provare quanto Benedetto XVI andasse al cuore delle due fedi, si può citare il suo rifiuto dell’espressione “fratelli maggiori” con cui tanti papi, da Giovanni XXIII a Francesco, si sono rivolti agli ebrei. Per lui tale espressione “non può essere bene accolta da loro, perché nella tradizione ebraica il ‘fratello maggiore’, ovvero Esaù, è anche il fratello abietto”. A suo giudizio gli ebrei sono piuttosto “i nostri ‘padri nella fede’”, espressione che “descrive con maggiore chiarezza il nostro rapporto”.

Poi, però, con Francesco molto è cambiato, a giudizio di Di Segni. E in peggio.

Un segnale premonitore, riferito nel libro da Lerner, fu la visita di Francesco al Tempio Maggiore di Roma, 1l 17 gennaio 2016, in cui il papa “evitò con accuratezza di citare lo Stato d’Israele” e quindi “il legame speciale con la terra” che caratterizza il popolo ebraico. [CONTINUA]

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